LE FIERE DI SAN LUCA
INTRODUZIONE
Per gli abitanti di Sant’Ambrogio di Fiera le Fiere di San Luca sono un avvenimento estremamente naturale che fa parte, si può dire, della loro stessa vita. La storia di Fiera si intreccia da sempre con quella delle Fiere: non sarebbe possibile immaginare l’una senza le altre. Il frastuono, il traffico, la marea di gente che ogni anno esse portano con sé, forse recano un certo disagio a coloro che abitano attorno al grande Prato o nelle sue vicinanze. Ma quelle persone sanno bene che le Fiere sono inevitabili; si rendono conto, più o meno consapevolmente, che esse costituiscono un patrimonio storico e di costume a cui non si può rinunciare. Quindi, ad ogni inizio di ottobre, all’affacciarsi delle prime nebbie autunnali, si dispongono ad accoglierle con serena rassegnazione.
Attualmente le Fiere di S. Luca si presentano come una sagra grandiosa, ricca di attrazioni per bambini e adulti. Ma nei primi secoli della loro storia, cioè nel Medioevo, il loro aspetto e la loro importanza erano ben diversi. Infatti esse erano essenzialmente un mercato, un grande e famoso mercato annuale, dove venditori e acquirenti, di paesi anche lontani, si incontravano per lo scambio di prodotti d’ogni genere.
L’origine della fiera, come istituzione commerciale, è molto remota. L’uso di tenere fiere e mercati era conosciuto anche dai Romani, dai Greci e da altri popoli più antichi ancora. Fu però nel Medioevo che la fiera raggiunse una grandissima importanza. La sua affermazione e la sua rapida diffusione in molte regioni d’Italia e di altri paesi europei furono determinate da quella generale ripresa che si verificò nel mondo occidentale dopo l’anno Mille. Il grande valore storico della fiera sta nel fatto che essa favorì il passaggio dall’economia chiusa, tipica della società feudale, alla nuova economia cittadina, aperta ai liberi scambi fra commercianti di località vicine e lontane.
La fiera si teneva nei luoghi più importanti della città, generalmente presso chiese o santuari; si svolgeva in coincidenza con particolari festività religiose e spesso durava molti giorni. Era quindi inevitabile che essa superasse il carattere puramente economico, per assumere l’aspetto di una grande festa popolare. In questo importante avvenimento, che aveva per lo più scadenza annuale, convergevano dunque interessi economici e aspetti religiosi e folcloristici della vita del popolo. Grazie alla sua notevole importanza, che si traduceva anche in cospicue entrate per le casse dell’amministrazione pubblica, la fiera incontrava il favore e la protezione di chi deteneva il potere. Norme e statuti speciali venivano emanati per garantire la sicurezza di tutti coloro che vi volevano partecipare, per regolare il comportamento dei commercianti e la vendita delle merci e per risolvere rapidamente, nel luogo stesso della fiera, le controversie o le liti che inevitabilmente sorgevano.
Come le fiere di molte città dell’Italia settentrionale, anche quella di Treviso, favorita dal luogo particolarmente felice, raggiunse una dimensione di grande rilievo. Secondo alcuni studiosi, primo fra tutti il Marchesan, essa esisteva ancor prima del Mille e si teneva in riva al Sile, presso il porto della città[1]. Con quale frequenza si svolgesse, quali fossero le sue caratteristiche e la sua durata in quell’epoca lontana non è possibile saperlo. Appena un cenno è contenuto nel primo documento che ne testimonia l’esistenza. Si tratta di un diploma di Berengario I, re d’Italia, redatto a Verona, nella chiesa di S. Zeno, il 9 gennaio del 905. Con questo diploma il Re concedeva al Vescovo di Treviso, Adalberto, parecchi diritti, tra cui due terzi delle imposte che gli spettavano sul “mercato del Porto Trevigiano”. Con tale concessione il Vescovo entrava in possesso dell’intero beneficio sulla Fiera, perché l’altro terzo delle imposte era già stato ceduto alla Chiesa trevigiana dai predecessori di Berengario.
L’ANTICO NOME DELLE FIERE
Originariamente la maggiore Fiera di Treviso si chiamava di San Michele; solo alcuni secoli più tardi assunse il nome di San Luca. Si chiamava Fiera di San Michele perché il luogo dove essa si svolgeva apparteneva al territorio di Melma, l’attuale Silea, la cui chiesa era dedicata all’arcangelo Michele; in seguito quel luogo passò sotto la giurisdizione del Comune di Treviso. Proprietario della chiesa e del territorio di Melma e quindi, per un certo tempo, anche del grande Prato della Fiera, era il Capitolo di Treviso, formato dai canonici della Cattedrale.
La Fiera, che nel diploma di Berengario viene indicata vagamente come “mercato del Porto Trevigiano”, compare per la prima volta con il suo antico nome nel 1181. È questo, infatti, l’anno nel quale viene registrata la dichiarazione di un tale, secondo cui i contadini che lavoravano le terre del Capitolo occupavano da trent’anni alcuni spazi nel mercato di San Michele, per la vendita del legname tagliato in un certo bosco di Melma[2]. Preziosa questa testimonianza che non solo ci rivela il nome della Fiera, ma ci fa anche sapere che già da molti anni essa si svolgeva con regolarità.
Un altro importante documento è costituito da un atto notarile del 1205. Da esso risulta che in quell’anno il banditore del Comune, per ordine del Podestà, aveva letto pubblicamente nella Piazza del Carubio (oggi Piazza dei Signori) alcune disposizioni riguardanti la Fiera di S. Michele[3]. Nessuno -avvertiva ad alta voce il nunzio- poteva prender posto con la sua merce nel Prato della Fiera, se prima non si fosse rivolto al massaro del Capitolo[4].
Se il diritto di concedere in affitto gli spazi del Prato spettava al Capitolo, poiché ne era il proprietario, il diritto di esigere la decima parte dei guadagni ricavati dalla Fiera spettava, invece, come già sappiamo, al Vescovo di Treviso. Ma questo privilegio restò in vigore solo fino al 1208, quando il vescovo Ambrogio volle cederlo allo stesso Capitolo[5]. Non si conosce il motivo di tale decisione; sta di fatto, comunque, che da allora si raccolsero nelle mani dei canonici tutti i diritti riguardanti la Fiera: quelli relativi sia alla concessione delle aree del Prato, sia alla decima sui guadagni dei commercianti. Questi diritti, però, non vennero conservati a lungo dal Capitolo, perché il Comune di Treviso, che guardava alla Fiera con particolare interesse, trovò in seguito il modo di farseli cedere[6].
Le Fiere di San Michele si tenevano intorno alla festa dell’Arcangelo di cui portavano il nome; iniziavano alcuni giorni prima del 29 settembre e terminavano alcuni giorni dopo. La loro durata variava a seconda delle situazioni economiche e, soprattutto, politiche del tempo.
Con non poca sorpresa troviamo che nel 1226 le Fiere cambiano data di svolgimento: dalla fine di settembre si portano verso la metà di ottobre. Questo mutamento fu disposto dal Podestà di Treviso, il bolognese Giacomo Cazzanimico, il quale emanò in quell’anno uno statuto che ordinava la posticipazione della Fiera di quindici giorni rispetto alla festa di S. Michele. “Stabiliamo -si legge nel documento- che la Fiera generale di S. Michele sia indetta nel luogo consueto per il quindicesimo giorno dopo la festa di S. Michele, facendola iniziare due giorni prima del quindicesimo e concludendola due giorni dopo…”[7]. In pratica quell’anno la Fiera doveva durare in tutto cinque giorni: dal 12 ottobre fino al 16 compreso. Lo spostamento del tempo della Fiera non fu solo temporaneo, voluto da particolari situazioni del momento, ma definitivo: mai più la Fiera di S. Michele sarebbe ritornata alla sua data originale. Perché una tale modifica ad una tradizione ormai consolidata? Purtroppo i documenti disponibili non offrono alcuna risposta.
Lo statuto del 1226 ci riserva una seconda sorpresa: esso rivela l’esistenza di un altro mercato, quello di S. Luca; un mercato certamente meno importante che, con tutta probabilità, si svolgeva nello stesso luogo della Fiera di S. Michele e nella festa dell’evangelista Luca, cioè il 18 ottobre. Questo lo si deduce dal fatto che lo spostamento della fiera maggiore causa lo spostamento della fiera minore, perché tra loro troppo vicine. Come nuova data del Mercato o Fiera di S. Luca viene scelto l’8 novembre, ottava di Tutti i Santi[8].
Da quanto detto sinora risulta evidente la grande importanza che riveste il documento preso in esame; importanza messa in luce dalla pubblicazione degli Statuti del Comune di Treviso, curata dal prof. Giuseppe Liberali, e dagli studi della prof.ssa Linda Negro[9].
In alcuni documenti del Duecento, anteriori allo statuto del 1226, la Fiera viene indicata con questa espressione: Fiera o Mercato “Sancti Michaelis de Melma”[10]. La presenza del toponimo “de Melma” non stupisce affatto, perché già sappiamo che il luogo dove si svolgeva la Fiera faceva parte, in origine, della località di Melma. Ciò che interessa osservare è che quell’aggiunta scompare definitivamente con lo statuto del 1226. Se poi si esaminano i documenti del 1300, si nota una nuova aggiunta che si riferisce, però, alla città di Treviso. Così, ad esempio, si legge: in un documento del 1217 “Forum et nundine Sancti Michaelis. de Melma”, nello statuto del 1226 “De fera generali Sancti Michaelis” e nelle Reformationes del 1317 “(…) nundinarum et mercati Sancti Michaelis de Tervisio”. Tutto ciò fa ritenere che prima del 1317, e probabilmente anche prima del 1226, sia avvenuto il passaggio dal Capitolo dei canonici al Comune di Treviso dei diritti sulla Fiera e sul luogo dove essa si teneva. Negli stessi documenti del 1317 si incontra un’altra espressione di fronte alla quale cade ogni dubbio. Si legge infatti che “il mercato del mese di ottobre si è soliti farlo nel Musile del Comune”[11].
Il Musile era il vasto Prato della Fiera, situato vicino al Sile. Per verificare se nel Medioevo esso occupava la stessa posizione attuale, basterà sfogliare gli Atti del 1344. Vi si troverà un’indicazione così chiara da poterla trascrivere nel suo testo originale: “(…) in prato sive loco, ubi solite sunt fieri et celebrari nundine Sancti Michaelis, posito extra civitatem, inter ecclesiam Sancti Ambrosii et flumen Sileris (…)”[12].
LE FIERE DI SAN LUCA E PAPA BENEDETTO XI
Tra i documenti d’archivio della Parrocchia di Fiera c’è un manoscritto, databile al 1934, che raccoglie una serie di appunti per una eventuale monografia sulla chiesa. L’autore è Attilio Lazzari, un appassionato cultore di storia trevigiana, il quale fa precedere le sue brevi annotazioni da queste parole:
“I Trevigiani, nel mettere piede nel vasto prato della Fiera (…) non dimentichino di leggere la lapide sul fronte dell’Asilo infantile, (…) lapide ricordante la ragione storica delle Fiere (…)”.
L’invito è senza dubbio stimolante e il testo della lapide non delude certo l’interesse del lettore. Vi è scritto infatti:
AD ONORARE LA DATA GLORIOSA
XXII OTTOBRE MCCCIII
DELL’ELEVAZIONE AL SUPREMO PONTIFICATO
DEL CONCITTADINO NICOLÒ BOCCASINI[13]
BENEDETTO XI
IL LIBERO COMUNE TRIVIGIANO
NEI PRIMI ANNI DEL SEC. XIV
LE ANTICHISSIME FIERE DI S. MICHELE
DA SETTEMBRE VOLLE AD OTTOBRE DIFFERITE
PLAUDENDO LA CITTÀ TUTTA
__________________
A PERPETUARNE IL RICORDO
ALCUNI CULTORI DI COSE PATRIE
AUSPICE IL GENERALE CONCORSO DI EGREGI CITTADINI
MCMXIV
In questa lapide viene dunque ricordato l’antico nome delle Fiere e si fanno conoscere chiaramente il motivo e l’epoca del loro spostamento da settembre a ottobre. Il testo era stato dettato dal noto prof. Angelo Marchesan, che l’aveva certamente ricavato da un’iscrizione del 1600, posta in una cappella della chiesa di San Nicolò di Treviso; iscrizione poi riportata, con qualche correzione, sul monumento a Benedetto XI, eretto nel 1693 nel presbiterio della stessa chiesa[14]. Dato il suo interesse, se ne trascrive la parte centrale, tradotta dal latino:
“… IL 18 OTTOBRE DELL’ANNO 1303 (Nicolò Boccasini) VIENE ELETTO SOMMO PONTEFICE E PRENDE IL NOME DI BENEDETTO XI. A PERPETUO RICORDO DELLA SUA ELEZIONE I CITTADINI DI TREVISO DECRETARONO DI INDIRE PER LA FESTA DI S. LUCA LE FIERE CHE ERANO SOLITI CELEBRARE IN OCCASIONE DELLA FESTA DI S. MICHELE…”[15].
Secondo l’iscrizione, i Trevigiani avrebbero spostato le Fiere dalla festa di S. Michele alla festa di S. Luca, perché ritenevano che il Pontefice fosse stato eletto il 18 ottobre, mentre è accertato che ciò avvenne il 22 ottobre[16].
In base all’epigrafe di S. Nicolò, tutti gli studiosi che si sono occupati delle Fiere di Treviso sostengono che, all’inizio del XIV secolo, esse cambiarono periodo di svolgimento a motivo dell’elezione del trevigiano Nicolò Boccasini; lo sostengono tutti, però con qualche eccezione. La prof.ssa Negro, ad esempio, afferma che si tratta di un grosso errore, ed ha pienamente ragione[17]. Infatti, come si è detto nel paragrafo precedente, già a partire dal 1226 le Fiere si tenevano nel mese di ottobre.
Ma cosa c’entra allora Benedetto XI? È dunque sbagliato ciò che sostengono le due iscrizioni riportate e studiosi come Antonio Scotti, l’Agnoletti e il Marchesan, solo per citare i più importanti?[18]. L’errore è evidente, almeno per quanto riguarda la ragione e l’epoca dello spostamento delle Fiere da settembre a ottobre. Non si vuole tuttavia escludere che tra esse e il Pontefice trevigiano ci possa pur essere qualche relazione.
Sempre in riferimento all’elezione di Benedetto XI, si sostiene ancora che, all’inizio del Trecento, le Fiere cambiarono anche il nome, oltre che la data. Questa convinzione è del tutto priva di fondamento, poiché nessun documento ne parla; non lo dicono neanche le due iscrizioni prese in esame. Eppure il mutamento del nome c’è stato -si può osservare giustamente- visto che ora le Fiere non si chiamano più di S. Michele, ma di San Luca. Dire però quando, in che modo e per quale motivo ciò sia avvenuto non è affatto semplice, dato che non si sono trovati documenti che potessero offrire le necessarie indicazioni. Si può fare tuttavia qualche considerazione, nel tentativo di chiarire questo problema.
Nel Trecento, se si eccettuano i primi anni[19], la Fiera iniziava la seconda o la terza domenica dopo la festa di S. Michele e durava otto giorni[20]: una settimana abbondante, dunque, che generalmente veniva a comprendere il 18 ottobre, festa di San Luca. Col passare degli anni e dei decenni questo giorno avrà acquistato sempre maggior rilievo, imponendosi gradualmente come nuovo, preciso riferimento per indicare il periodo delle Fiere.
Già nel Quattrocento, e forse anche prima, doveva essere naturale per il popolo dire all’inizio di ottobre: “Tra poco sarà San Luca! Tra poco arriveranno le Fiere!”. Da qui la lenta comparsa del nuovo nome e la sua progressiva affermazione. Dire “Fiera di San Luca” doveva avere un significato più immediato per la gente di quell’epoca, che aveva certamente dimenticato da tempo la ragione storica a cui era legato il nome di San Michele.
I documenti ufficiali, si sa, tendono a fissare e a conservare gelosamente nomi, termini linguistici, norme e così via. Quindi per molto tempo ancora essi avranno continuato a riportare l’antica denominazione delle Fiere, ignorando l’espressione spontanea entrata nel linguaggio vivo del popolo. Purtroppo attualmente si dispone di documenti che solo indirettamente fanno supporre l’avvenuto mutamento del nome della Fiera, e per giunta tali documenti sono pochi e piuttosto tardi.
Il primo risale al 1542 ed è costituito da una lettera ducale del doge Pietro Lando in cui si dispone “che il Giudice andar debba con il suo paviglion in fiera la vigilia di S. Luca”[21].
Un balzo di cinquant’anni esatti e troviamo una bella testimonianza del celebre Bartolomeo Burchelati. Questi, parlando delle tre fiere che si tenevano al suo tempo nel Trevigiano, scrive nel Ternario, pubblicato nel 1592: “(…) la terza (fiera) è quella speciosa et ricca di Trevisi, che si fa a Porto qui fuor delle mura, la qual incomincia da San Luca et dura tre quinarij, cioè quindeci giorni”[22].
Una testimonianza forse più bella ancora e certamente più chiara, anche se di genere completamente diverso, ci viene offerta nel 1610, quando un altro Bartolomeo, l’Orioli, pittore trevigiano, dipinge la pala dell’altar maggiore della chiesa di Fiera. In questa tela l’evangelista Luca figura nel gruppo dei tre Santi protettori della Parrocchia. Non c’è assolutamente alcun dubbio sul significato di questa sua presenza. Bisogna dire anzi che, se l’Evangelista viene dipinto accanto al Santo titolare della chiesa, le Fiere del vicino Prato dovevano aver assunto il suo nome molto e molto prima del 1610.
Un ultimo quesito prima di concludere: che ne è stato del piccolo mercato di S. Luca, messo in luce dallo statuto del 1226?
Di esso si parla ancora negli statuti del 1263 e del 1313. Anche successivamente avrà continuato ad esserci, ma con il tempo le sue tracce andarono definitivamente perdendosi. Probabilmente quando il nuovo nome della Fiera finì col soppiantare l’antico, il Mercato di S. Luca o scomparve oppure venne assorbito dalla Fiera principale. D’altra parte come si potevano mantenere due fiere con lo stesso nome, nello stesso luogo e a breve distanza di tempo l’una dall’altra?
A conclusione di questo paragrafo, si vuole ripetere con la prof.ssa Negro che è errato collegare all’elezione di Benedetto XI il trasferimento delle Fiere di San Michele da settembre a ottobre e il mutamento del loro antico nome in quello attuale. Ci si rende conto, tuttavia, che questa affermazione non è sufficiente a risolvere fino in fondo tale problema, non certo semplice ne privo di interesse e di curiosità. Altri certamente lo riprenderanno in esame, per giungere, si spera, ad una completa chiarificazione.
LE FIERE NEL MEDIOEVO[23]
Fin dall’inizio del Duecento le Fiere di San Michele erano un avvenimento di grandissima importanza per tutto il territorio trevigiano. Si pensi che in alcuni anni, come il 1213, il 1214 e il 1217, esse duravano ben diciassette giorni[24].
L’annuncio della loro apertura veniva dato solennemente da un pubblico banditore nelle piazze principali della città: il Carubio, Piazza del Duomo e Piazza di San Leonardo. A gran voce egli comunicava notizie e disposizioni riguardanti le Fiere e con particolare vigore avvertiva che tutti vi potevano partecipare, fatta però eccezione per i ladri, i falsari, i violenti e coloro che avevano avuto guai con la Giustizia.
Se le Fiere erano un grande avvenimento già nei primi anni del 1200, fu però nel secolo successivo che esse raggiunsero il culmine della loro celebrità e grandezza. Per farsi un’idea di quale fosse la loro importanza, basterà sapere che parecchi giorni prima del loro inizio si inviavano speciali banditori a cavallo ad annunciarle nei vari castelli[25] del territorio trevigiano e nelle principali città del Veneto e di altre regioni. Un banditore si recava nel Friuli fino ad Aquileia; un altro veniva mandato a Bassano, a Vicenza, a Verona, a Mantova, a Reggio, a Cremona e a Brescia; infine un terzo raggiungeva Padova, Ferrara e Bologna.
La notizia della Fiera si diffondeva così in una regione vastissima per quei tempi. Si possono ben comprendere i sacrifici e i pericoli a cui si esponevano quei nunzi nel compiere lunghi viaggi che duravano giorni e giorni. Però i risultati si vedevano chiaramente durante le Fiere: grandissimo concorso di venditori e acquirenti; enorme varietà di prodotti; massiccia quantità di contrattazioni commerciali e, di conseguenza, intensa circolazione di denaro.
Per Treviso la grande Fiera non era solo una questione economica, ma anche un fatto di costume e di prestigio politico. Il Comune faceva quindi ogni sforzo perché essa si svolgesse regolarmente ogni anno, senza interruzione, e fosse organizzata bene sotto ogni aspetto. Neppure in tempo di guerra si voleva sospenderla. Racconta infatti Giovanni Bonifaccio nella sua Historia trivigiana che, di fronte al pericolo di essere assaliti dalle milizie di Cangrande della Scala, i cittadini di Treviso organizzarono ugualmente “la lor celebre e ricca Fiera”. Per difenderla da eventuali rappresaglie, mobilitarono cinquecento soldati a cavallo, impegnandone una parte nel luogo dove essa si svolgeva e una parte presso le numerose porte della città[26].
Naturalmente, quando tali pericoli non esistevano, le forze impiegate erano assai più limitate. In genere dovevano essere circa quaranta i soldati impegnati nella sorveglianza diurna e notturna della Fiera. Ma chi forniva ogni anno al Comune questo corpo di guardie? A volte erano tenute a farlo le corporazioni dei commercianti; a volte i cosiddetti nobili rusticani, cioè i signorotti del contado, i quali dovevano intervenire a cavallo e bene armati; altre volte ancora tale compito spettava ai borghi del circondario, detti ville. Nel 1344 anche la Villa di Porto dovette fornire due guardie.
La domenica precedente quella dell’apertura delle Fiere, nel Prato si recava il Giudice, affiancato da quattro capitani. Vi andavano anche i gastaldi, che erano i rappresentanti delle corporazioni di commercianti e artigiani che intendevano prendere parte alla Fiera. A costoro il Giudice assegnava le corsie in cui il Prato era stato diviso. In ogni corsia i membri di una stessa corporazione avrebbero eretto le loro botteghe, costituite da baracche e tende.
Nel difficile lavoro di suddivisione del Prato, si ricorreva all’uso di punti fissi, rappresentati da pietre piantate nel terreno. Nell’assegnare poi le corsie alle varie corporazioni, dette anche scuole delle arti, si prendeva spesso come punto di riferimento la stessa chiesa di Sant’Ambrogio. Leggendo i documenti del 1344 si incontrano con frequenza espressioni simili a questa: “…hanno assegnato (una corsia) al Signor Giovanni da Farra, macellaio, gastaldo della scuola dei macellai, il quale ha ricevuto per se, per la sua ‘scuola’e i suoi confratelli, otto passi di terra a testa, a partire da oriente, dalla chiesa di Sant’Ambrogio, e andando verso il padiglione[27], tenendosi dalla parte sinistra, fino alla prima pietra infissa nel terreno…”[28]. Oltre a quella dei macellai, molte altre «scuole» partecipavano alla Fiera. Se ne citano solo alcune a scopo indicativo: la scuola dei tavernai, dei formaggiai, dei fornai (pistori), dei venditori di erbe medicinali (speziali), dei calzolai, dei pellicciai, dei lanaioli, dei fabbricanti di stoffe (drappieri), dei sarti, dei fabbri, dei falegnami (marangon), degli orefici, ecc.
Per l’inizio della Fiera tutto, ovviamente, doveva essere pronto: le botteghe dei venditori locali e forestieri; il padiglione per il Podestà e il suo seguito, sormontato da un pennone con lo stemma del Comune e circondato tutt’intorno da un solido steccato di protezione; una piccola prigione in legno per rinchiudere chi avesse commesso certi reati; infine alcune forche sistemate in buona posizione per punire con la pena capitale i delitti più gravi. Come si vede, il Comune di Treviso non intendeva scherzare neppure durante le Fiere. Evidentemente esso si proponeva soprattutto di scoraggiare gli individui particolarmente pericolosi.
Giunta la domenica di apertura delle Fiere, si presentavano al Giudice le guardie che dovevano prestare servizio di sorveglianza, tutte armate di spada, coltello, lancia, scudo e cervelliera[29].
Con tutta probabilità il momento dell’inaugurazione coincideva con il solenne arrivo del Podestà a cavallo, seguito dai dignitari del Comune e dai gastaldi che reggevano i gonfaloni delle rispettive corporazioni. Allora le campane di Sant’Ambrogio suonavano a distesa in segno di festa. Un banditore dava poi lettura di tutte le norme che regolavano lo svolgimento della Fiera, elencando le contravvenzioni e le pene a cui venivano sottoposti i trasgressori. Si ammonivano severamente i bestemmiatori del nome di Dio, della Vergine e dei Santi: questi tali per punizione sarebbero stati calati con una cesta nelle acque del Sile! Agli assassini, ai rapinatori, ai falsari e ad altra gente simile si intimava di non mettere neppure piede nel Prato della Fiera e di tenersi lontani anche dalla città, se non volevano perdere gli averi e la vita. Si avvisava inoltre che gli spacci di vino dovevano chiudere la sera dopo il terzo suono di campana: da quel momento nessuno avrebbe più potuto trattenersi fuori della sua tenda e tanto meno aggirarsi per il Prato, anche se avesse avuto il lume acceso. I commercianti, infine, dovevano star bene attenti a non usare bilance e misure falsificate e a non vendere merce avariata.
Terminata la lettura del banditore, i gastaldi si affrettavano a sistemare in cima alle loro botteghe l’emblema della propria corporazione. Dopo di che poteva finalmente iniziare l’animata vita della Fiera.
Nel periodo delle Fiere anche il Podestà dimorava nel Prato. Assieme alla servitù e ai funzionari del suo seguito, egli alloggiava nell’ampio padiglione che di solito veniva allestito nel luogo del mercato degli equini e di altri animali. I suoi cavalli venivano rinchiusi nella stalla del prete della chiesa di Sant’Ambrogio, al quale era stato chiesto che le campane scandissero puntualmente le ore del giorno e della notte, in onore del Podestà e del Comune. Come ricompensa per le sue prestazioni, egli avrebbe ricevuto una somma già stabilita in precedenza[30].
Alla Fiera accorreva ogni giorno una grande massa di gente che doveva creare seri problemi di traffico. Ce lo fa pensare uno statuto del 1317 che dava al riguardo precise disposizioni: coloro che, venendo dalla città, volevano recarsi al Prato a cavallo o con bestie e carri dovevano percorrere la strada principale che portava alla Callalta e alla chiesa di Sant’Ambrogio; i pedoni, invece, potevano prendere la via che costeggiava il Sile, cioè la Restera o Alzaia: per questa strada secondaria avrebbero senz’altro camminato più comodamente e senza difficoltà[31].
Poteva capitare che, per tutta la durata delle Fiere, il tempo si mantenesse brutto, danneggiando specialmente i commercianti forestieri. In questo caso il Comune, come fece nel 1392, emanava uno speciale decreto che prolungava ancora di qualche giorno il periodo della Fiera[32].
A tutti i problemi, insomma, e a tutte le difficoltà si cercava di porre rimedio nel Medioevo, perché nessuno conservasse un brutto ricordo delle Fiere di Treviso e non venisse quindi offuscata la grande fama che dappertutto esse si erano acquistate.
LA TRASFORMAZIONE DELLE FIERE
Come tutte le fiere del Medioevo, anche quella trevigiana non presentava solo l’aspetto commerciale, ma anche quello della festa, dello svago, del divertimento. Si ha notizia che nei giorni di fiera era eccezionalmente permesso il gioco dei dadi, proibito durante l’anno. Ma chissà da quanti altri divertimenti era costituito il settore ricreativo della Fiera! Saltimbanchi, giocolieri, equilibristi, commedianti girovaghi davano, probabilmente, facile spettacolo in diversi spazi del Prato, soprattutto nei giorni festivi.
Anche il settore gastronomico doveva essere bene sviluppato. Le cose da vedere e da comperare alla Fiera erano molte e quindi la gente vi si fermava a lungo; i punti di ristoro, perciò, non potevano mancare. Nelle taverne gli osti, oltre ai boccali di vino nuovo, servivano piatti di zuppa, di carne alla griglia e allo spiedo, di pesce del Sile. C’erano poi i banchi della frutta, dei dolciumi, dei formaggi…
Per diversi secoli il settore gastronomico-ricreativo rappresentò semplicemente il «contorno» della Fiera, sostenuta essenzialmente da motivazioni di carattere economico. Ma quando, per cause diverse, tali motivazioni cominciarono a venir meno, allora l’aspetto festaiolo della Fiera prese gradualmente il sopravvento su quello commerciale[33]. Questo fenomeno non si verificò solo a Treviso, ma un po’ dappertutto, in Italia come all’estero: fu nel Settecento che, in generale, si ebbero i primi sintomi di questa crisi.
Per quanto riguarda la Fiera di San Luca, già alla metà del secolo scorso era rimasto ben poco dell’antico e importante mercato. Lo si può capire da un articolo di giornale, scritto a Treviso il 12 novembre 1848:
“Saltatori di corda, -si legge tra l’altro– burattinanti, venditori girovaghi, cantanti da piazza, prestigiatori, vengono da’ loro luoghi (…). Tutti questi per otto giorni hanno stabile posto (nel Prato della Fiera); fanno graziosi replicati inviti perché di loro si goda, sebbene poco si spenda (…). Il canale stesso del Sile è pur bello di barche ripiene di gente, che vanno e tornano dalla Fiera. È infine uno spettacolo tutto proprio del luogo che fa partire scontenti, perché dura sì poco”[34].
Da queste espressioni risulta chiaramente che lo spettacolo e il divertimento erano ormai diventati l’aspetto predominante della Fiera; ma non per questo, come fa capire il giornalista, essa aveva perso la sua popolarità.
Anche nei primi decenni del XX secolo le Fiere continuavano ad essere molto rinomate e frequentate. All’inizio degli anni Trenta, in tutte le stazioni ferroviarie del Regno si potevano acquistare biglietti con lo sconto del cinquanta per cento per andare a Treviso, alle Fiere di S. Luca!
Le attrazioni che in quel periodo animavano la Fiera avevano assunto un aspetto tutto nuovo, grazie all’impiego dell’elettricità e delle tecniche più avanzate dell’epoca. Sarebbe interessante rispolverare un opuscoletto propagandistico, uscito nel 1933, per poter farsi un’idea di come fossero le Fiere di allora. Ne trascrivo solo qualche breve stralcio:
“La Fiera dei ‘maroni’, dei folpi e del ‘vin novo’ sarà quest’anno scintillante di luci come non mai e ricca di attrazioni grandiose (…). Nel campo dei colossi avremo l’Ottovolante Manfredini, lungo ben 52 metri e tutto scintillante di lampade elettriche; lo Scooter Kowscha è il più importante che giri l’Italia; Frank Tood è il più audace acrobata che giri in moto e in auto nel muro della morte; (…) avremo anche il circo Zoppè, il Taboga, giostre a cavalli, ad automobili, a seggiolini volanti; una graziosa giostrina auto-moto-aeroplani sarà la delizia dei bambini; nei tiri la novità più ammirata sarà il foto-tiro (…). Vi saranno anche i baracconi caratteristici di ogni fiera: la foca ammaestrata e la donna cannone, il museo anatomico e la sirena del mare, gli specchi deformanti e il padiglione dei fenomeni (…)”[35].
Come si vede, la Fiera di S. Luca si era trasformata in un grande parco divertimenti, con tutto il fascino che allora cominciavano ad esercitare le lampade elettriche e i nomi stranieri.
Ma non si era conservato proprio nulla dell’antico mercato? – ci si potrebbe chiedere. Ben poco, per la verità; qualche residuo, però, era ancora rimasto. Di che cosa si trattasse lo lasciamo dire a Giuseppe Mazzotti nel suo interessante opuscolo sulle Fiere di S. Luca, scritto nel 1940:
“Il lato commerciale è ridotto alla fiera degli animali che si tiene alla mattina del martedì. Però quanto colore, quanta vita in questo mercato! (…) I cavalli sono legati in fila per la cavezza a lunghe corde tese su paletti ai margini del campo. Hanno stupende code ornate con treccioline di paglia. Voltano la testa ogni tanto, trattenuti dalla cavezza breve. Grossi uomini dai panciotti a scacchi o dalle giacche di fustagno li lisciano sulle groppe con le loro larghe mani. (…) Altri tengono un cavallo per la briglia, e lo fanno trotterellare fra la folla. Un grosso cavallo è attaccato a un pesante carro, con le ruote chiuse dai freni per mostrare la forza straordinaria nell’animale. (…) Accanto ai bellissimi cavalli sono forti muli, e buoi, e asini grigi e neri. Tutta una parte del prato è lasciata libera per questa fiera degli animali, che termina in brevi ore. Pochi la conoscono fuori dei mercanti, ed è lo spettacolo più bello di tutte le Fiere di San Luca”[36].
Questo caratteristico mercato, che suscitava l’ammirazione del Mazzotti, rimase in vita fino al 1950 circa. Per i mercanti di cavalli la famiglia Torzo cuoceva la zuppa di trippe, che essi consumavano nel primissimo mattino del martedì, appena giunti nel Prato con i loro splendidi animali. Per il pranzo veniva preparato il piatto tipico della Fiera: l’oca arrosta con sedano bianco. I Torzo servivano da mangiare nella loro stessa casa, situata ai margini del Prato: un’abitazione trasformata, come molte altre del luogo nel periodo delle Fiere, in un’autentica osteria con ottima cucina.
Oggi più nulla ricorda l’antica Fiera. Ogni metro quadrato di spazio disponibile è «bruciato» da giostre sempre più sofisticate; ogni anno se ne vedono di nuove. Il vecchio Ottovolante è stato superato da macchine indiavolate che «mandano in orbita», come la Soyuz, che fanno ballare e sussultare in modo irresistibile, come il Tagadà, che fanno compiere evoluzioni da capogiro, come il Polipo.
Per fortuna non si riducono solo a questo le moderne Fiere di San Luca. Si incontrano ancora qua e là gli stands gastronomici, ricchi di colore paesano, dove si possono mangiare braciole e salsicce ai ferri con polenta abbrustolita. Agli angoli delle affollatissime corsie si è raggiunti dal gradevole odore delle castagne arrostite nei classici padelloni forati, neri e fumanti. Resiste anche la bancarella dei folpetti caldi e del vino nuovo, sistemata a due passi da modernissime e abbaglianti botteghe mobili, provviste di ogni sorta di leccornie.
Nelle due settimane di Fiera non mancano interessanti manifestazioni: il concerto del Coro Stella Alpina, la Marcia di San Luca lungo la Restera, l’elezione della Reginetta delle Fiere, la mostra dei disegni eseguiti nel Prato dagli alunni delle scuole.
La grande Fiera trevigiana culmina nello spettacolo dei fuochi d’artificio che, lanciati nel cielo con scoppi improvvisi, ricadono poi in mille luci colorate sulle tranquille acque del Sile.
Quello spettacolo suggestivo riassume tutto il fascino e anche la frivolezza delle moderne Fiere di San Luca che, del grande mercato d’un tempo, conservano solo il caratteristico Prato e la massiccia e gioiosa partecipazione della gente. Esse, tuttavia, hanno il merito di mantenere viva la più celebre e antica manifestazione popolare di Treviso, così profondamente radicata nell’animo dei suoi cittadini.
Testo tratto da Sant’Ambrogio di Fiera, di Paolo Pozzobon, ed. Zoppelli, Treviso 1980
Note:
[1] A. MARCHESAN, op. cit., Vol. 2°, pag. 27.
[2] D. SCOMPARIN, op. cit., pag.171, nota 32: “et vidit rusticos canonice facere stationes in mercato Sancti Michaelis de lignis Vedernedi et hoc per XXX annos…”; v. anche le pagg. 28 e 31.
[3] A. MARCHESAN, op. cit., Vol. 2°, pag. 27.
[4] Il massaro era il canonico che amministrava i beni del Capitolo.
[5] A. MARCHESAN, op. cit., Vol. 2°, pagg. 27-28.
[6] Ciò viene detto più o meno chiaramente da Antonio SCOTTI (in Memorie del Beato Benedetto XI, Treviso 1737, pag. 85), da Rambaldo AVOGADRO DEGLI AZZONI (in Lettere, per la prima volta pubblicate in occasione delle nobili nozze Valier-Tiepolo, Venezia 1829, pagg. 10-11) e dall’AGNOLETTI (in Treviso e le sue pievi, cit., Vol. 1°, pag. 502).
[7] G. LIBERALI, Gli Statuti…, cit., Vol. 2° (Compilazione del 1231), pag. 226: “De fera generali sancti Michaelis. Statuimus (…) quod fera generalis sancti Michaelis fiat (sia indetta) loco consueto per XV. dies [leggendo: XV. dies, come XV° diem (?)] post festum sancti Michaelis, duobus diebus ante quintadecimam et duobus diebus post, et ipsa die quintadecima (…)”.
[8] Ibidem: “(…) Mercatum autem sancti Luce fiat loco consueto et fiat in octava Omnium Sanctorum (…)”.
[9] L. NEGRO, Ricerche sulla vita trevigiana nei secoli XIII e XIV, Tesi di Laurea, Univ. di Trieste, Anno Acc., 1953/54, pagg. 71-75.
[10] A. MARCHESAN, op. cit., Vol. 2°, pag. 28, note: “(…) mercatum Sancti Michaelis de Melma” (1206); “(…) in mercato Sancti Michaelis de Melma” (1208); “(…) forum Sancti Michaelis de Melma” (1213); “(…) forum et nundine Sancti Michaelis de Melma” (1217).
[11] Ivi, pag. 411, Reformationes 1317: “(…) mercatum de mense octubris fieri solet in Musili Comunis (…)”.
[12] Ivi, pag. 417, Actorum Libr. 1344. (Trad.: “… nel prato o luogo dove si è soliti tenere e celebrare le Fiere di S. Michele, situato fuori della città, fra la chiesa di Sant’Ambrogio e il fiume Sile…”)
[13] Nicolò Boccasini di Treviso (1240-1304). Monaco domenicano, Cardinale e poi Papa col nome di Benedetto XI. Venne eletto il 22 ottobre 1303. Il suo pontificato durò meno di nove mesi, perché il 7 luglio del 1304 morì, forse avvelenato, nella sua residenza di Perugia.
[14] G. MILANESE, La chiesa monumentale di S. Nicolò in Treviso, Treviso 1905, pagg. 28-31 e 77-78.
[15] A. MARCHESAN, op. cit., pag. 26: “(…) ANNO MCCCIII. XIV CAL.(endas) OCTOB.(res) [da correggere in XI calendas novembres, corrispondente al 22 ottobre] / SUMM.(us) PONT.(ifex) CREATUR / ET BENEDICTUS XI NUNCUPATUR / IN HUIUS PERPETUUM ASSUMPTIONIS MONIM.(entum) / TARV.(isini) CIVES NUNDINAS / QUAE AD DIEM S.(ancti) MICHAELIS CELEBRARI CONSUEVERANT / AD DIEM S.(ancti) LUCAE CENSUERUNT INDICENDAS (…)”.
[16] A. LAZZARI – T. GARZONI, Le antichissime Fiere di Treviso, Treviso 1920, pagg. 3-12.
[17] L. NEGRO, op. cit., pag. 74. Le tesi di Linda Negro sono confermate da Giuseppe LIBERALI (cfr. Gli Statuti…, cit., Vol. 3°, pag. 36, nota n. 55). Anche Giovanni NETTO, parlando delle Fiere di S. Michele in relazione a Benedetto XI, manifesta delle perplessità (cfr. art. cit., pag. 4).
[18] A. SCOTTI, op. cit., pag. 84; C. AGNOLETTI, Treviso e le sue pievi, cit., Vol. 1°, pag. 502; A. MARCHESAN, op. cit., Vol. 2°, pagg. 25-26.
[19] Dal 1226 fino al 1313, tranne qualche eccezione, la Fiera durava cinque giorni: dal 12 al 16 ottobre.
[20] A. MARCHESAN, op. cit., Vol. 2°, pagg. 416-417, Actorum libr. 1344.
[21] Statuta provisionesque ducales Civitatis Tarvisii…,Venezia 1768, pagg. 634-635.
[22] B. BURCHELATI, Il Ternario, overo l’ethimologia di Trevigi – Dialogo…, Treviso 1592, pag. 39.
[23] La descrizione delle Fiere nel Medioevo viene ricavata sostanzialmente dallo studio principale sull’argomento, che troviamo al cap. XXI di Treviso medievale, la celebre opera del Marchesan, già tante volte citata.
[24] Che la durata delle Fiere fosse di diciassette giorni risulta chiaramente da un documento del 1217: “Forum et nundine S. Michaelis de Melma debeant per octo dies ante festum S. Michaelis et per octo post festum fieri…” (cfr. A. MARCHESAN, op. cit., Vol. 2°, pag. 28, nota n. 4). Ovviamente nel conteggio dei giorni si deve considerare la stessa festa di S. Michele.
[25] Nel Medioevo erano chiamati castelli anche i grossi borghi cinti di mura, come ad esempio Castelfranco Veneto.
[26] G. BONIFACCIO, Historia trivigiana, Treviso 1591, pag. 374. Cfr. anche G.B. A. SEMENZI, op. cit., pag. 210.
[27] Il padiglione era una grande tenda fatta erigere dal Comune per ospitare il Podestà, il Giudice e i funzionari del loro seguito.
[28] A. MARCHESAN, op. cit., Vol. 2°, pag. 417, Actorum libr. 1344: ‘Primo videlicet designaverunt ser Joanni de Fara, becario, gastaldioni ‘scole becariorum’, recipienti pro se et dicta scola et eius confratribus, octo passus terre per testam incipiendo versus mane ab ecclesia Sancti Ambrosii et veniendo versus paviglionum directe a manu sinistra usque ad primam petram in terra fixam”.
[29] La cervelliera era il piccolo elmo che i soldati portavano sul capo a scopo protettivo.
[30] A. MARCHESAN, op. cit., Vol. 2°, pag. 412, Reformationes 1317: “Pasius de Fontanis, notarius, (…) consuluit (…) quod in discrecione curiarum domini potestatis ancianorum et consulum sit de providendo domino presbitero Sancti Ambroxii, qui moratur penes mercatum S. Michaelis predictum, de agravamine et tedio quod infertur dicto domino… presbitero tempore nundinarum sive de eo quod dictus dominus presbiter complaceat domino potestati Tarvisii et sue familie in receptando equos ipsius domini potestatis in suis stallis et (…) pulsando campanas tam in tempore noctis pro horis notandis, quam alitercumque pro honore dicti domini potestatis et Comunis Tarvisii”.
[31] Ibidem: “(…) Item, quod omnes volentes ire ad dictum mercatum et ab inde redire equester vel cum bestiis et palustris et carretis, ire et redire teneantur tantum per stratam magnam per quam itur versus Callem Altam, sive versus ecclesiam Sancti Ambroxii. Ita quod volentes ire pedester per aliam viam, que est iuxta Sylerem, comodius et sine difficultate possint ire et redire”.
[32] Ivi, Vol. 2°, pag. 36.
[33] Interessanti osservazioni su questo argomento si possono trovare nell’opuscolo di Giuseppe MAZZOTTI, Le Fiere di S. Luca in Treviso, Treviso 1940, e nel saggio di Enzo DEMATTÈ, Fiere e mercati, in AA. VV., “Treviso nostra”, Cittadella 1964, pagg. 402-407.
[34] A. LAZZARI – T. GARZONI, op. cit., pag. 27.
[35] Le Fiere di S. Luca, a cura del “Dopolavoro di Fiera”, Treviso 1933.
[36] G. MAZZOTTI, Le Fiere di S. Luca…, cit., pag. 5.